Appunti di geometria planare e fenomenologia dei campi

Cesare Viel, Più nessuno da nessuna parte,

P.A.C. Milano, 12.10 – 1.12.2009 a cura di Diego Sileo

 

Che cosa è un piano? Non serve una definizione specifica per un concetto geometrico tanto facile da intuire. Il piano è un’idea accettata da tutti che si ripropone ogni giorno nell’esperienza della superficie su cui si cammina, nei tavoli davanti ai quali sediamo, nel sollievo del riposo. Un’idea semplice come un foglio di carta, priva di ostacoli, piana appunto, chiara come la geometria che si occupa delle figure che sul piano appoggiano, solida e sobria come il terreno sotto i piedi, aperta come il significato di una frase enunciata distintamente o scritta a pennarello nero in diligente corsivo su uno sfondo bianco.

Il giardino di mio padre. Gli oggetti sepolti (2019) è un lungo rettangolo di terra arida e compatta stesa sul pavimento, un campo apparentemente senza vita che evoca l’immagine di un ampio sentiero battuto, il risultato del tempo e dei passi che hanno trasformato la roccia in ghiaia e finalmente terriccio, un orto non coltivato. Il visitatore ne può contemplare la distesa seduto su uno sgabello in posizione laterale o attraversarla in silenzio, scalzo, accompagnato nel suo passeggio dai suoni di un ambiente naturale. Una lista di oggetti, redatta a mano in forma di inventario su un grande un foglio appeso a parete, fronteggia l’installazione a terra. Una matita, un bilancino di precisione, una cravatta blu, un martello, un cacciavite a stella e un cacciavite a taglio, una chiave a pappagallo, un binocolo da teatro, un tovagliolo di cotone, due mazzi di carte da gioco,  una custodia di cartone con fotografie, una lente d’ingrandimento, una pipa in radica, una torcia, un accendino, una forbice, un adattatore di corrente, un contenitore con compasso e altri strumenti di misurazione, un metro pieghevole di legno, un metro a nastro, una scatola di legno con tessere del domino, una tenaglia, una pinza , un seghetto, un esposimetro analogico, un raccoglitore di plastica con chiavi a brugola, un cutter, una custodia portaocchiali. Semplici cose il cui solo valore è la capacità di evocare il catalogo dei gesti di chi le ha usate e di veicolarne il ricordo. Ormai inutili e muti, gli strumenti che hanno smesso di misurare, gli attrezzi che non servono più, i passatempi che nessuno divertono sono sepolti nella modesta profondità di quel tappeto di terra,  trasformati in reperti archeologici di un passato la cui indagine stratigrafica qualifica come recentissimo.

Mentre l’artista svolge la sua performance dissotterrandone alcuni, inevitabilmente si prova a immaginare la persona al quale quegli oggetti sono appartenuti. Emerge il ritratto di uomo asciutto, per certi aspetti quasi marziale, forse solo apparentemente più incline alla certezza della geometria che alle forme indefinibili assunte dai sentimenti. È una figura taciturna di quelle che appartengono alla folta schiera degli uomini che col passare del tempo si fanno di poche parole, secchi come il rumore dei cassetti della scrivania dove ripongono tutti quei loro attrezzi, ridotti a strumenti di una comunicazione pratica e silenziosa, voci di un vocabolario muto. La figura del padre dell’artista a cui si fa riferimento nel titolo dell’opera assume allora i caratteri di quello stesso terreno battuto e compatto che, come tutti gli oggetti resistenti, porta il segno dell’ambivalenza, quello dell’aiuto e dell’ostacolo, un senso ben noto al maratoneta che spinge il piede a terra per procedere e vincere la fatica del percorso, ma anche a ogni figlio che guarda al genitore con fiducia e sfida.

In fisica, un campo è definito in funzione dell’azione dei vettori associati alle forze che agiscono nello spazio e le rappresentano in termini di intensità, direzione e posizione. Ogni azione performativa si svolge in uno spazio costituito dall’area designata per il manifestarsi dell’accadimento. Il piano, elemento ricorrente nell’opera di Cesare Viel, assume, assieme alla forza di gravità, un valore iconico rispetto alla concretezza di tale manifestazione e alla sua conseguente inevitabile dispersione che costituisce di per sé la specificità dell’atto performativo.

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Avvicinandoti a distanza  fronteggia idealmente Il giardino di mio padre suggerendo la complementarità di un dittico. L’allestimento, basato sulla ricostruzione di una mostra presentata alla galleria Pinksummer di Genova nel 2008, evoca la presenza della madre dell’artista attraverso tre opere in origine distinte: un tappeto steso a terra, una frase sulla parete e una traccia audio che solo un singolo visitatore alla volta può ascoltare in cuffia. Anche in questo caso, l’installazione è caratterizzata dalla presenza di un campo che definisce lo spazio dell’apparizione e qui assume la morbidezza e il calore della superficie del tappeto steso a terra. Al piano limitato e misurabile del suo perimetro rettangolare, si sovrappone la designazione di un più ampio e indefinito piano metafisico suggerito dalla frase riprodotta sul muro (“ … percorrendo i margini dello spazio passo dopo passo un percorso laterale … “). Rispetto all’evidenza stratigrafica dell’opera dedicata al padre e al suo carattere prettamente maschile, sottolineato dalla griglia di oggetti in esso collocati, tale sovrapposizione esprime la fascinazione per una diversa complessità, meno misurabile e necessariamente declinata al femminile. In entrambi i casi, il piano definisce i termini della presenza nel momento in cui resiste al peso, pur leggerissimo, del passo. La superficie calpestabile supporta il corpo e, ponendosi in posizione antagonista rispetto all’azione, ne consente il compimento.

Il peso dei massi da scogliera impiegati per l’allestimento di Gertrude. The making of Americans (2012-2019) si calcola in tonnellate. La loro presenza in relazione al cognome della scrittrice (pietra in tedesco) e al volume delle pagine del libro chiuso in tutta la sua complessità, propone ulteriori riflessioni sulla stratificazione dei piani e la ricerca delle origini dell’identità. Una evidente fascinazione geologica avvicina questa installazione a Il giardino di mio padre e materialmente carica il concetto di piano di una connotazione terrestre profonda, nella quale il suolo assume i connotati femminili della terra, chiamata in causa direttamente in quanto testimonianza dello stratificarsi del tempo e materia originaria generante, grande madre, contrapposta alla semplicità strutturale della rappresentazione del patriarcato, ridotto a una mera superficie di terra secca. Alla fisica imposizione del peso della roccia, il piano non fa che rispondere con tutta la forza con cui il piede del pugile calca il ring per sferrare un gancio ben assestato. Il piano non è che il luogo geometrico dell’accadere.

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Il piano, l’azione, la sovrapposizione, la stratificazione e il peso. Sfogliando le pagine solo leggermente ingiallite di Attaccapanni pubblicato nel 1978 nella collana Einaudi Letteratura, si trova una foto in bianco e nero che mostra un pavimento coperto da alcuni fogli di giornale. Il pavimento è tanto lucido da riflettere la luce proveniente da una porta finestra che resta fuori campo nella parte superiore dell’immagine. A proposito di questo suo Pavimento (1967) Luciano Fabro, autore dell’opera e del libro, sottolinea che il senso di quel lavoro è da cercare esclusivamente nel valore dell’azione, l’abitudine e la fatica del lucidare protetta sotto i giornali dalla donna di casa. È Cesare stesso a parlarmi di quest’opera dicendo quanto profondamente ne fosse stato colpito. Guardando le dense campiture di carboncino sulle pagine del quotidiano cancellato in Primo Levi (1987) o il mio riflesso nello Specchio a carbone (1987) mi sembra di riconoscerne le componenti fondamentali assimilate e riorganizzate in diverse combinazioni di superficie e azione.

Il pavimento su cui è stata allestita Infinita ricomposizione (2015-2019) è un piano di scorrimento concepito come base sulla quale vengono spostate e collocate delle sagome ritagliate in feltro colorato, tratte da una selezione di opere di Henri Matisse. In quanto tale, la sua superficie idealmente liscia esclude la resistenza delle forze d’attrito e risulta molto più vicina per consistenza tattile all’opera di Luciano Fabro sopra citata che alle superfici corrugate dei primi frottage a carboncino o a quelle delle due installazioni dedicate ai genitori. Costituita dalla somma delle diverse disposizioni dei feltri che si susseguono nel corso della durata della mostra, l’opera ha una natura dinamica e immateriale strettamente legata all’ azione performativa necessaria per il riposizionamento dei feltri. Rispetto ai lavori precedenti, l’introduzione del colore, l’uso dello spazio e la scelta del materiale conferisce a Infinita ricomposizione una gioiosa leggerezza di apertamente matissiana facilità che prevale su tutti gli impliciti e consapevoli richiami alla tradizione del contemporaneo da Robert Morris a Helio Oticica. Per quanto il lavoro possa apparentemente risultare solo una felice digressione nella ricerca dell’artista, il ruolo fondante della superficie come campo dell’azione, il peso dei feltri contenuto esattamente nella libertà degli spostamenti dei performer e nell’orizzontalità del loro silenzio sono da ricondursi ancora una volta agli esercizi di geometria dei piani e alla fenomenologia dei campi che si è cercato di analizzare brevemente negli esempi precedenti. Il piano ritorna qui in una sua ulteriore declinazione e assume i caratteri di una pista da ballo sulla quale il repertorio di figure e pause che si alternano in un tango esprime l’estro combinatorio dell’improvvisazione.

 Nel celebre saggio Note su poesia e filosofia (1989), Charles Simic spiega l’origine della sua lirica descrivendo “un tavolo sul quale disponiamo oggetti interessanti trovati durante una passeggiata: un ciottolo, un chiodo arrugginito, una radice dalla forma strana, l’angolo strappato di una fotografia”. Per quanto emblematica nell’esemplificare la scintilla che scatena il processo creativo, il senso della citazione in questo contesto non è tanto da cercarsi negli oggetti e nella loro disposizione, quanto piuttosto nel ruolo attivo, solo apparentemente marginale, giocato dal piano del tavolo in qualità di campo dove si instaurano dei sistemi di relazione. Come il tavolo, anche il pavimento, il suolo, il giaciglio e la tovaglia, la superficie orizzontale del tappeto e il foglio su cui si scrive forniscono un supporto, una base su cui costruire un sistema di relazioni. Rispetto alle opere di Cesare Viel, sono questi i campi che definiscono sobriamente la complessità della relazione tra superficie e accadimento, proiettando lo spazio empirico e gli oggetti che lo occupano in una dimensione metatemporale che prevede la coesistenza di stasi e libertà di movimento nella condizione dell’essere alla deriva.

All’interno del PAC di Milano, l’architettura di Ignazio Gardella regala un’inedita prospettiva a volo d’uccello sulle opere che aprono la rassegna. Il visitatore che, seguendo il percorso della mostra, si sposti lungo la balconata e si affacci a guardare dall’alto le sale al piano terra  ha infatti la sorpresa e il privilegio di un secondo sguardo su quanto visto poco prima. Lost in meditation, Infinita ricomposizione, Aladino catturato e Avvicinandoti a distanza si avvicendano così in una sorta di piano sequenza che dimostra la sorprendente efficacia dello spazio espositivo aperto e unitario disegnato da Gardella, ma soprattutto fa riconoscere nell’atto di mostrare le opere in rassegna un omologo superiore della disposizione degli oggetti sul tavolo menzionata dal poeta serbo: sul pavimento di legno del padiglione, gli oggetti sono le opere stesse. L’attenzione si sposta ancora una volta sulla sovrapposizione dei piani e sulle loro possibilità combinatore. Il pavimento, anch’esso dotato della semplicità dei concetti fondamentali che non hanno bisogno di troppe spiegazioni per essere capiti, offre una solida base per infinite ricomposizioni delle opere esposte nei possibili percorsi all’interno della mostra.

Il piano è un elemento tanto ovvio da non essere degno di nota, come l’acqua ai sensi dei pesci, come l’aria che è ovunque e pur non si vede. Umile come la terra sotto gli scarponi, il piano ricorre nell’opera di Cesare Viel come un basso continuo e assume diverse connotazioni a seconda degli accadimenti e delle forze che su di esso insistono. Sentiero battuto, pista da ballo, palestra, palco, il piano implica sempre una presenza umana rispetto alla quale è supporto e ostacolo.

Il tema della scomparsa che fa da filo conduttore della mostra trova espressione concreta nel tema universale della perdita dei genitori. Al di là della delicata poesia delle opere e ben lontano da ogni mera espressione autobiografica, la scelta del soggetto risulta emblematica riguardo all’indagine sull’identità condotta dall’artista precedentemente e al motivo della dispersione che definisce la specificità della performance. Rispetto alla centralità dei concetti di scomparsa e dispersione, il piano, attraverso l’esperienza della superficie, ci offre una tangibile manifestazione dell’assenza. Ogni superficie orizzontale definisce infatti il campo assoluto dell’azione dove l’attesa di un accadimento che non si è ancora verificato e la memoria di quanto è precedentemente accaduto coesistono in potenza. In quanto superficie, si può immaginare che un piano sia un verbo coniugato al presente assente.

Massimo Palazzi

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Mike Nelson

Gesù Cristo si è appena manifestato in cielo sopra l’autostrada. Alla visione hanno assistito in pieno giorno centinaia di automobilisti e i loro compagni di viaggio, se presenti. Quando l’enorme figura di Cristo, crocifisso e incappucciato, in un lampo è apparso davanti a loro al di là parabrezza, stavano semplicemente parlando, ascoltando la radio o godendosi la monotona sicurezza della guida, sprofondati nell’abitacolo insonorizzato delle loro vetture. Ora, immediatamente dopo l’apparizione, c’è un silenzio terribile. La fila di auto ferme sull’asfalto è interminabile.

Uomini e donne si aggirano come comparse in quello che sembra il set di una serie TV. Sono vere le auto posteggiate con i fari accesi, gli oggetti collocati al loro interno, il suono delle autoradio compresso dai finestrini chiusi; reali i muri del capannone che le contiene mostrandosi in tutta l’affascinante monumentalità degli spazi del lavoro collettivo, reale anche il sistema di illuminazione e di aereazione con cui è stato equipaggiato per la sua nuova destinazione d’uso. Eppure, nell’intervento di Mike Nelson alle OGR (Officine Grandi Riparazioni) di Torino intitolato L’Atteso, tale e tanta realtà è funzione di un’ostentata, quasi didascalica, rappresentazione. La grande quantità di detriti su cui si cammina evoca il passato prossimo del luogo, il tempo prima del restauro e della riconversione in cui l’edificio era rovina industriale. Emblematica in tema di rappresentazione è la franca presenza di una costruzione in legno grezzo che divide lo spazio e identifica il luogo della messa in scena, segnalando una soglia attraverso la quale il visitatore accede all’opera, quasi fosse un attore che sale sul palco per recitare la sua parte. Una quinta, lo schermo opaco e muto di un drive-in verso il quale tutte le auto sono rivolte. Un grande cartellone pubblicitario, tanto finto quanto vuoto.

Non c’è modo di capire cosa sia successo, quale narrazione connetta i molti elementi appositamente preparati in maniera anche troppo palesemente intrigante per il visitatore, se non quello della raccolta degli indizi. Viene da pensare allo scenario del romanzo di John Ajvide Lindqvist, Musica dalla spiaggia del paradiso (2015) così introdotto nella quarta di copertina dell’edizione italiana:

Una mattina d’estate, un gruppo di ospiti di un campeggio non lontano da Stoccolma si risveglia in mezzo al nulla. Ogni cosa è stata cancellata, gli alberi, il lago, gli scogli e il chiosco, è tutto scomparso. Intorno ai villeggianti increduli – dieci persone, un cane e un gatto – c’è solo una landa desolata, ricoperta da un prato perfettamente rasato e sovrastata da un cielo blu e senza sole, così uniforme da apparire artificiale. Ogni contatto con la realtà è interrotto. Non rimane che il segnale di una misteriosa stazione radiofonica, che trasmette senza sosta le canzoni di Peter Himmelstrand, uno dei più noti cantautori svedesi di musica leggera. Musica pop a ripetizione, Abba in testa.[…]

Nelle pagine di Lindqvist sembra di ritrovare la stessa atmosfera sospesa dell’installazione di Nelson, un’analoga avvincente tecnica narrativa che intrappola il fruitore nel ruolo di chi cerca di venire a capo di un mistero destinato a restare comunque insoluto. Ci sono poi l’immaginario collettivo delle canzonette diffuse alla radio e la messa in scena di una comunità umana involontariamente assortita con tutta la sua paccottiglia.

Noi siamo spettatori e attori al tempo stesso. Qui ci aggiriamo circospetti tra le auto, intenti a curiosare dentro l’oscurità degli abitacoli illuminati dalle spie del cruscotto e ad altre luci accese alla ricerca del particolare rivelatore. Tra cartine stradali, abiti e telefoni cellulari abbandonati sui sedili si riconoscono strani giocattoli un po’ macabri e oggetti che rimandano apertamente a pratiche esoteriche e infatuazioni politiche del passato italiano recente. Uno zaino che reclamizza Forza Italia, piramidi energetiche in bronzo che si crede possano concentrare energie positive al loro interno, tarocchi.

Nel corso dell’allestimento della mostra In the rear view mirror (pinksummer, Genova, 2014) Bojan Šarčević mi disse che avrebbe voluto offrire al visitatore un’esperienza simile a quella provata da chi entra in una sala cinematografica quando la proiezione del film è in pieno svolgimento e improvvisamente si trova davanti a personaggi sconosciuti, impegnati nello sviluppo di una trama che ignora completamente. Il brivido di quest’estraneità rispetto all’evidenza delle relazioni che connettono elementi noti ma inesplicabili, credo fosse il suo obiettivo, la cui premessa necessaria è il tentativo di superamento della mostra come gioco di rappresentazione in nome della creazione di un ambiente reale praticabile indipendentemente dal linguaggio dell’arte. Spinto da questa tendenza, il progetto originario dell’artista prevedeva infatti una radicale riorganizzazione degli ambienti della galleria e della posizione del personale al loro interno.

Anche nel caso dell’installazione di Mike Nelson sembra di entrare sul set di un film in pieno svolgimento. La miscela di realtà e finzione di cui si è detto somministra al visitatore un sapiente dosaggio di coinvolgimento e straniamento brechtiano, inteso come Verfremdungseffeckt che invita lo spettatore all’identificazione, ma crea la giusta distanza per indurre un atteggiamento analitico rispetto all’evidenza fatti rappresentati.

Una volta entrati all’interno dell’opera, dopo aver raccolto le informazioni così chiaramente esposte non resta che cercare di rispondere alla domanda che il titolo inevitabilmente ci pone: chi è l’atteso?

La mia personale risposta parte dal breve racconto che apre questo testo. Si tratta del ricordo di un sogno che feci una ventina d’anni fa, inaspettatamente riaffiorato alla mia memoria mentre stavo visitando l’installazione di Mike Nelson. Nel sogno ricordo di aver provato un grande turbamento dovuto al reale e inequivocabile verificarsi di un evento assurdo, impossibile, inconcepibile nel mondo contemporaneo quale è la teofania. Il turbamento di allora coincide oggi con lo stupore che provo di fronte all’inaspettato ritorno delle fedi religiose oggetto dell’ultimo libro di Neil McGregor, Living With the Gods (2018) e la profonda delusione con cui assisto a quella che definirei la progressiva ascesa del fascismo in risposta all’indeterminazione e all’insicurezza generali dell’occidente, alle sue ormai apparentemente poco sostenibili libertà.

Gli oggetti collocati all’interno delle auto sono la testimonianza delle estreme preoccupazioni di chi si trovava a bordo, la maggior parte racconta della necessità di una guida per il viaggio, qualcosa in grado di indicare la via giusta a chi naufraga nell’incertezza delle possibilità, strizzando l’occhio alla fascinazione per l’occultismo cui è notoriamente legata la città di Torino. La struttura effimera che ricorda lo schermo verso il quale le auto sono rivolte materializza la presenza di una visione, un fine non meglio identificato, o forse è solo una parete posticcia, il termine di un binario tronco, la fine del viaggio. Date queste premesse, l’atteso non può essere altro che il messia, l’unto dalla folla, il duce, l’entità superiore a cui incredibilmente tutti tornano ancora a rivolgersi, colui che inevitabilmente, terminata l’infatuazione collettiva, vedrà le sue sorti capovolgersi. Perché l’atteso è destinato a trasformarsi nell’appeso, la figura rappresentata nella dodicesima carta degli arcani maggiori, il traditore sottoposto finalmente al supplizio pubblico. Ma cosa accadrà prima che il destino ancora una volta si compia?

Massimo Palazzi

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Coma Cose

Parole come immagini. L’ascolto dei brani del duo hip hop milanese Coma Cose stimola una certa curiosità anche in chi, come me, non si è mai interessato a un genere che a un orecchio superficiale può suonare irritante e un po’ respingente. Il loro tratto distintivo è la freschezza delle modalità sintattiche con cui parole, e necessariamente immagini, eterogenee si concatenano nello snocciolìo dei testi, formando un sistema semantico originale che che strizza l’occhio al cantautorato e fa leva su un immaginario collettivo tutto italiano. L’oggetto di questo scritto sono le scelte combinatorie che presiedono all’assemblaggio della parole in strofe, la produzione di significato attraverso la giustapposizione di elementi, argomento di mio interesse rispetto a certe pratiche, ricorrenti nelle arti visive contemporanee, che accomunano il lavoro di artisti e curatori, ruoli oggi finalmente sempre meno distinti e sempre più intercambiabili.

Il problema è innanzitutto il vecchio adagio postmoderno ancora del tutto attuale: come dare senso e cosa fare dell’enorme archivio di immagini e parole, di repertori, testimonianze e collezioni di meraviglie che si accumulano nelle stanze dei musei, nella rete e sempre meno della memoria? Coma Cose risponde assemblando frammenti eterogenei secondo l’assonanza delle parole, l’allitterazione, la rima, l’analogia delle immagini che si susseguono, libere da ogni finalità narrativa, per rappresentare una vita di quartiere che scorre in sordina tra birrette e piccole cose. Sono frammenti che si definiscono tali rispetto agli immaginari che evocano, spesso legati alla musica e alla cultura pop italiana, dotati di un potenziale emotivo in cui un ampio spettro di pubblico può riconoscersi. Anche se lo sguardo al passato si fa a volte malinconico (Anima Lattina), più spesso si rivolge subito altrove, evitando compiacimenti nostalgici con abili deviazioni (“Gianna Gianna aveva un coccodrillo sopra la maglietta che paga lo sponsor” in Jugoslavia) che mantengono il tono dei brani elegantemente in bilico tra leggerezza e introspezione. Al di là di queste considerazioni generali, un’accurata analisi dei testi di Coma Cose, come quella condotta da Stefano Ghidinelli con altri esempi dalla scena hip hop italiana, potrebbe illustrarne in dettaglio gli aspetti linguistici, gli espedienti ritmici e descrivere con precisione la tecnica poetica adottata. Per quanto mi riguarda, occupandomi di arti visive, propongo invece di considerare le parole come un vero e proprio materiale plastico, fatto di pezzi colorati da smontare, montare e rimontare, una selezione di ritagli significativi, una collezione di cose restituite dal mare e raccolte durante una passeggiata sulla spiaggia d’inverno. Ogni parola un oggetto trovato, sottratto al suo contesto d’uso, un ready-made, un componente che, per le sue qualità formali e organolettiche, attrae o respinge altri oggetti, suggerisce accoppiamenti e genera associazioni. Con una simile premessa, viene spontaneo paragonare il processo creativo che presiede alla composizione di quei pezzi alla pratica del collage, che ha avuto recentemente una certa fortuna nel mondo dell’arte (cfr. Dennis Bush, The Age of Collage: Contemporary Collage in Modern Art, 2013) e della fotografia contemporanea (cfr. Charlotte Cotton, Photography is Magic, 2015) ed è tuttora ampiamente diffuso e gode di rinnovata popolarità tra gli utenti della rete. Un accostamento facile facile, che del resto richiama le origini della stessa musica hip hop, la pratica del sampling, la campionatura di suoni che estratti dal loro contesto originario assumono sempre nuove valenze una volta copiati e organizzati in pattern e ulteriormente riassemblati nella preparazione dei dischi remix, a loro volta materiale per ulteriori pratiche combinatorie. Ma torniamo a soffermarci sull’ipotesi del paragone tra poesia e immagine e a considerare il collage come pratica parallela alla scrittura. Le pubblicazioni di Mékanik copulaire, documentano un’ampia casistica di possibilità combinatorie finalizzate alla creazione di immagini inedite con ritagli eterogenei, spesso provenienti da pubblicazioni d’epoca.

billl noir

Bill Noir, Des Astres, 18 x 15 cm, 92 pages, edition of 200 copies published by Mécanik Copulaire, Strasbourg, France, June 201

I collage di Bill Noir, per esempio, includono immagini a cui sappiamo dare un nome (denti, ferro da stiro, tessuto, mosca, busto, braccia, torso) contenute nel perimetro del ritaglio che si sovrappone a quanto abbiamo appena riconosciuto, conferendogli una nuova fisicità oggettuale e straniante.

Sarah Mosk, Joined Gaze, 2012

Sarah Mosk, Joined Gaze, 2012

Nella figura creata da Sarah Mosk invece la lettura e il riconoscimento delle immagini sono compromesse dalla sovrapposizione di una sagoma che risulta disturbante per ridondanza. In entrambi i casi comunque la somma delle parti è del tutto indipendente dalla sue componenti, un complesso plastico strutturato che spontaneamente diventa significante e assume vita propria. Ascoltiamo ora due strofe di Jugoslavia dei Coma Cose:

Fuori dai confini americani
Tentativi per entrare vani
Siamo messi che abbaiamo
Insomma siamo messi-cani

Ti do un’
OCB così ti calmi e dopo non mi uccidi
Vuoi fare Ho Chi Minh sì ma ocio man che duri dieci min

Quale è la connessione tra cani e messicani o tra una cartina OCB e il rivoluzionario vietnamita? e soprattutto quale il ruolo di queste parole rispetto al senso generale del brano? L’associazione è dettata prima di tutto da una serie di assonanze che dimostrano una giocosa e felice irriverenza nei confronti del significato dei singoli termini che sono usati come ritagli e messi insieme in un modo che risulta funzionale all’ascolto e alla scorrevolezza del testo, non dissimile all’allineamento delle braccia nel collage di Sarah Mosk o agli accostamenti cromatici nelle immagini di Bill Noir. Il suono e l’accentazione delle parole diventano di volta in volta la sagoma, il colore, il segno da allineare, mentre la parola stessa resta il ritaglio. Come nel caso dei collage, il risultato è indipendente dalle componenti impiegate e acquista valore per l’eleganza della sua struttura, il cui potenziale significato appare secondario e rilanciato alla soggettività di chi ascolta o di chi guarda.

Coma Cose mostra nell’uso della lingua e nella produzione di significato la stessa libertà irriverente che guida le scelte di chi si diverte a smontare e rimontare le immagini. Entrambi condividono un approccio formalista al materiale che trattano con l’elegante sicurezza di una virtuosistica sprezzatura. Ut pictura poësis.

Massimo Palazzi

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Stefania Galegati Shines

“L’idea che l’Ade sia escremento ci riporta ad altra, già adombrata teoria: che esso sia un quid che non c’è; nel firmamento solido, il buco; attivo orfizio, come quello, assurdo, che si disegna al centro dell’acqua in movimento, che pare debba inghiottire fiume e mare, sebbene esso propriamente sia un non esistere. Per quella smagliatura del niente andrebbe via via irreparabilmente dissipandosi la orgogliosa consistenza delle cose; l’Ade come lavabo, per il cui buco odoroso di cloaca tutto l’universo passa, astratto intestino che tutto trita e scioglie, onde vedrai anche sventolar la veste dell’irritatissimo iddio sprofondante.

In tal caso, nel niente dell’Ade si concentrerebbero non solo tutte le cose, ma altresì le non cose; e l’universo sarebbe piuttosto da pensare come da sempre irretito nell’Ade, che lo provvederebbe di distanze e assenze, e di ogni altra forma di diniego. Ma sarebbe, allora, cosa diversa dall’Ade?

Infine, affrontando il medesimo problema per altro verso, come si concluderà la levitazione discenditiva? In quale forma dobbiamo pensare l’Ade, affinché sia idoneo a dar soddisfazione alla esigente angoscia degli adediretti? Quale qualità e guise avrà la letizia ad essi fornita da quel Iuogo geometrico, animale, macchina, escremento, non essere, buco? In proposito, si potrebbe avanzare la seguente ipotesi:”

 

L’idea di usare la pagina conclusiva dell’Hilarotragoedia (1964) di Giorgio Manganelli come introduzione all’ultimo lavoro di Stefania Galegati Shines per pinksummer a Genova è una scelta opinabile, forse addirittura un passo falso. Del resto, anche se così fosse, la vanità di questo tentativo permetterebbe comunque di cadere direttamente nella premessa fondante di una mostra che, inserendosi nella reiterata pratica dell’errore consolidata dalla tradizione del contemporaneo, celebra il fallimento attraverso la nota immagine del buco fatto nell’acqua.

E’ questo il centro attorno a cui ruota una personale ricca ed eterogenea che si pone come premessa al completamento previsto per il finissage della mostra, quando Stefania quel buco nell’acqua lo farà davvero, materializzandolo nella realtà del laghetto di un affascinante parco storico cittadino. Nell’attesta che il progetto venga realizzato, l’artista ha presentato in galleria due dipinti di medio formato, entrambi orizzontali, in cui l’uso della materia pittorica suggerisce ed esplora due aspetti possibili del soggetto stesso, diversi e complementari.  In quello che si potrebbe definire più astratto e statico, il buco è evocato da una forma ellittica scura che interrompe una superficie uniforme verde chiara e risulta impreziosita dalla delicata tessitura di goccioline bianche che la attraversano, minuti coaguli di colore steso sulla superficie. Nell’altro, la cavità è immaginata come luogo in cui confluisce la materia circostante attraverso vigorose pennellate centripete che culminano in un sistema di cascate all’interno della voragine.  Entrambi i dipinti, affatto terrei in quanto a colore e stesura, non presentano elementi che indichino la dimensione di quanto rappresentato che è lasciata alla fantasia di chi guarda. Nel primo, il buco assume le fattezze di una discontinuità, un diniego, una cancellazione, “un quid che non c’è” citando Manganelli;  nel secondo sembra invece configurarsi come un “attivo orfizio”, una grande cavità che dischiude un’apertura su un mondo sotterraneo. Nonostante la centralità del soggetto rispetto all’intento dell’artista, detti dipinti costituiscono però solo una minima parte degli oggetti esposti in mostra. Li accompagnano infatti una significativa selezione di lavori realizzati negli anni Settanta da alcune delle artiste rappresentate nella collezione di Gianni Garrea e un’altra opera di Stefania evocata in absentia.

Mirella Bentivoglio, Tommaso Binga (eteronomo di Bianca Menna), Betty Danon, Agnes Denes, Amelia Etlinger, Maria Lai, Margaret Morton, Giustina Prestento, Greta Schödl, Salette Tavares sono le personalità evocate in una caleidoscopica e gustosa rassegna che, al di là delle occasionali consonanze con il lavoro dell’artista e dell’indubbio pregio dei singoli pezzi, offre innanzitutto una campionatura di modalità creative che siamo abituati a leggere come prettamente femminili, caratterizzate da una miscela di minuzia accurata e forza dirompente. Ma che cosa hanno a che fare questi pezzi con il buco nell’acqua di cui sopra? Donna tra donne, Stefania ha riconosciuto nelle opere selezionate un linguaggio famigliare, ma soprattutto si è resa conto del processo di rimozione che ha mantenuto in ombra il lavoro di quelle artiste rispetto ai loro contemporanei di sesso maschile. Nel comunicato stampa in forma di intervista che affianca la mostra, l’artista ha esplicitamente parlato del buco in cui tali donne hanno operato, una discontinuità storica che definisce oggi la loro specificità, una dimensione oscura finalmente rivelata, subordinata all’immaginario del mondo maschile e caratterizzata dal coraggio dell’errore, della frattura e del diniego.

Un piccolo scarto metaforico permette di associare all’atto di esporre al pubblico tale dimensione nascosta, l’immagine delle radici dissotterrate di un tronco abbattuto al suolo, improvvisamente rivelate agli occhi dei passanti di un centro cittadino dal crollo dell’albero al di sotto del quale fino a quel momento avevano vissuto. L’immagine è quella dell’opera che completa la mostra, nata dall’incontro di Stefania con un pino marittimo sradicato dallo scirocco a Palermo, un’immagine tanto forte e significativa da indure l’artista a realizzare, con l’aiuto di alcuni amici, il suo Monumento al cadere. L’installazione nello spazio pubblico, oggi definitivamente rimossa, quindi resa ancor più emblematica come monumento al fallimento, è evocata collocando sul pavimento della galleria i resti della targa in marmo che la identificava.

Epurata da certi ammiccamenti scatologi cari a Manganelli, la sua dissertazione sulla natura discendente dell’essere umano che culmina nel brano citato in apertura proietta il fallimento in una direzione infera, oscura e sotterranea, seppur ironica. Il buco nell’acqua e l’albero di Stefania cadono nella stessa direzione anche se, nel caso dell’artista, la rêverie discensiva si fa più propriamente ctonia per il valore simbolico assunto dalla terra in merito alle questioni identitarie di genere e assume così una connotazione positiva rispetto alla caduta nell’Ade descritta dallo scrittore. In termini geometrici, la discontinuità creata nel piano del reale dall’anomala presenza della buca, di una cavità fessa come la natura femminile, si sovrappone alla rimozione storica del lavoro delle artiste rappresentate in mostra, celebrate nella testimonianza gloriosa della delicatezza fantasmatica e preziosa di quanto ci hanno lasciato.

Un buco nell’acqua indica il naufragio di un’intenzione semplicemente perché si richiude e scompare istantaneamente. L’idea di arrestare questo processo facendo in modo che il buco resti aperto significa rendere concreto un qualcosa di impossibile, ma anche indicare all’attenzione di chi guarda la porta che introduce a una consapevolezza esistenziale profonda basata sull’accettazione dell’errore. Stefania riesce a farlo semplicemente adottando un piccolo trucco che con elegante sprezzatura trasforma un comune modo di dire in un principio cosmologico. E’ propriamente con una tale fesseria, se così si può dire senza implicare connotazioni negative, che l’artista inscena la sua celebrazione del fallimento e proclama vincente ogni presunta debolezza regalandoci la meraviglia di un prodigio.

Massimo Palazzi

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