Stefania Galegati Shines

“L’idea che l’Ade sia escremento ci riporta ad altra, già adombrata teoria: che esso sia un quid che non c’è; nel firmamento solido, il buco; attivo orfizio, come quello, assurdo, che si disegna al centro dell’acqua in movimento, che pare debba inghiottire fiume e mare, sebbene esso propriamente sia un non esistere. Per quella smagliatura del niente andrebbe via via irreparabilmente dissipandosi la orgogliosa consistenza delle cose; l’Ade come lavabo, per il cui buco odoroso di cloaca tutto l’universo passa, astratto intestino che tutto trita e scioglie, onde vedrai anche sventolar la veste dell’irritatissimo iddio sprofondante.

In tal caso, nel niente dell’Ade si concentrerebbero non solo tutte le cose, ma altresì le non cose; e l’universo sarebbe piuttosto da pensare come da sempre irretito nell’Ade, che lo provvederebbe di distanze e assenze, e di ogni altra forma di diniego. Ma sarebbe, allora, cosa diversa dall’Ade?

Infine, affrontando il medesimo problema per altro verso, come si concluderà la levitazione discenditiva? In quale forma dobbiamo pensare l’Ade, affinché sia idoneo a dar soddisfazione alla esigente angoscia degli adediretti? Quale qualità e guise avrà la letizia ad essi fornita da quel Iuogo geometrico, animale, macchina, escremento, non essere, buco? In proposito, si potrebbe avanzare la seguente ipotesi:”

 

L’idea di usare la pagina conclusiva dell’Hilarotragoedia (1964) di Giorgio Manganelli come introduzione all’ultimo lavoro di Stefania Galegati Shines per pinksummer a Genova è una scelta opinabile, forse addirittura un passo falso. Del resto, anche se così fosse, la vanità di questo tentativo permetterebbe comunque di cadere direttamente nella premessa fondante di una mostra che, inserendosi nella reiterata pratica dell’errore consolidata dalla tradizione del contemporaneo, celebra il fallimento attraverso la nota immagine del buco fatto nell’acqua.

E’ questo il centro attorno a cui ruota una personale ricca ed eterogenea che si pone come premessa al completamento previsto per il finissage della mostra, quando Stefania quel buco nell’acqua lo farà davvero, materializzandolo nella realtà del laghetto di un affascinante parco storico cittadino. Nell’attesta che il progetto venga realizzato, l’artista ha presentato in galleria due dipinti di medio formato, entrambi orizzontali, in cui l’uso della materia pittorica suggerisce ed esplora due aspetti possibili del soggetto stesso, diversi e complementari.  In quello che si potrebbe definire più astratto e statico, il buco è evocato da una forma ellittica scura che interrompe una superficie uniforme verde chiara e risulta impreziosita dalla delicata tessitura di goccioline bianche che la attraversano, minuti coaguli di colore steso sulla superficie. Nell’altro, la cavità è immaginata come luogo in cui confluisce la materia circostante attraverso vigorose pennellate centripete che culminano in un sistema di cascate all’interno della voragine.  Entrambi i dipinti, affatto terrei in quanto a colore e stesura, non presentano elementi che indichino la dimensione di quanto rappresentato che è lasciata alla fantasia di chi guarda. Nel primo, il buco assume le fattezze di una discontinuità, un diniego, una cancellazione, “un quid che non c’è” citando Manganelli;  nel secondo sembra invece configurarsi come un “attivo orfizio”, una grande cavità che dischiude un’apertura su un mondo sotterraneo. Nonostante la centralità del soggetto rispetto all’intento dell’artista, detti dipinti costituiscono però solo una minima parte degli oggetti esposti in mostra. Li accompagnano infatti una significativa selezione di lavori realizzati negli anni Settanta da alcune delle artiste rappresentate nella collezione di Gianni Garrea e un’altra opera di Stefania evocata in absentia.

Mirella Bentivoglio, Tommaso Binga (eteronomo di Bianca Menna), Betty Danon, Agnes Denes, Amelia Etlinger, Maria Lai, Margaret Morton, Giustina Prestento, Greta Schödl, Salette Tavares sono le personalità evocate in una caleidoscopica e gustosa rassegna che, al di là delle occasionali consonanze con il lavoro dell’artista e dell’indubbio pregio dei singoli pezzi, offre innanzitutto una campionatura di modalità creative che siamo abituati a leggere come prettamente femminili, caratterizzate da una miscela di minuzia accurata e forza dirompente. Ma che cosa hanno a che fare questi pezzi con il buco nell’acqua di cui sopra? Donna tra donne, Stefania ha riconosciuto nelle opere selezionate un linguaggio famigliare, ma soprattutto si è resa conto del processo di rimozione che ha mantenuto in ombra il lavoro di quelle artiste rispetto ai loro contemporanei di sesso maschile. Nel comunicato stampa in forma di intervista che affianca la mostra, l’artista ha esplicitamente parlato del buco in cui tali donne hanno operato, una discontinuità storica che definisce oggi la loro specificità, una dimensione oscura finalmente rivelata, subordinata all’immaginario del mondo maschile e caratterizzata dal coraggio dell’errore, della frattura e del diniego.

Un piccolo scarto metaforico permette di associare all’atto di esporre al pubblico tale dimensione nascosta, l’immagine delle radici dissotterrate di un tronco abbattuto al suolo, improvvisamente rivelate agli occhi dei passanti di un centro cittadino dal crollo dell’albero al di sotto del quale fino a quel momento avevano vissuto. L’immagine è quella dell’opera che completa la mostra, nata dall’incontro di Stefania con un pino marittimo sradicato dallo scirocco a Palermo, un’immagine tanto forte e significativa da indure l’artista a realizzare, con l’aiuto di alcuni amici, il suo Monumento al cadere. L’installazione nello spazio pubblico, oggi definitivamente rimossa, quindi resa ancor più emblematica come monumento al fallimento, è evocata collocando sul pavimento della galleria i resti della targa in marmo che la identificava.

Epurata da certi ammiccamenti scatologi cari a Manganelli, la sua dissertazione sulla natura discendente dell’essere umano che culmina nel brano citato in apertura proietta il fallimento in una direzione infera, oscura e sotterranea, seppur ironica. Il buco nell’acqua e l’albero di Stefania cadono nella stessa direzione anche se, nel caso dell’artista, la rêverie discensiva si fa più propriamente ctonia per il valore simbolico assunto dalla terra in merito alle questioni identitarie di genere e assume così una connotazione positiva rispetto alla caduta nell’Ade descritta dallo scrittore. In termini geometrici, la discontinuità creata nel piano del reale dall’anomala presenza della buca, di una cavità fessa come la natura femminile, si sovrappone alla rimozione storica del lavoro delle artiste rappresentate in mostra, celebrate nella testimonianza gloriosa della delicatezza fantasmatica e preziosa di quanto ci hanno lasciato.

Un buco nell’acqua indica il naufragio di un’intenzione semplicemente perché si richiude e scompare istantaneamente. L’idea di arrestare questo processo facendo in modo che il buco resti aperto significa rendere concreto un qualcosa di impossibile, ma anche indicare all’attenzione di chi guarda la porta che introduce a una consapevolezza esistenziale profonda basata sull’accettazione dell’errore. Stefania riesce a farlo semplicemente adottando un piccolo trucco che con elegante sprezzatura trasforma un comune modo di dire in un principio cosmologico. E’ propriamente con una tale fesseria, se così si può dire senza implicare connotazioni negative, che l’artista inscena la sua celebrazione del fallimento e proclama vincente ogni presunta debolezza regalandoci la meraviglia di un prodigio.

Massimo Palazzi

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