Appunti di geometria planare e fenomenologia dei campi

Cesare Viel, Più nessuno da nessuna parte,

P.A.C. Milano, 12.10 – 1.12.2009 a cura di Diego Sileo

 

Che cosa è un piano? Non serve una definizione specifica per un concetto geometrico tanto facile da intuire. Il piano è un’idea accettata da tutti che si ripropone ogni giorno nell’esperienza della superficie su cui si cammina, nei tavoli davanti ai quali sediamo, nel sollievo del riposo. Un’idea semplice come un foglio di carta, priva di ostacoli, piana appunto, chiara come la geometria che si occupa delle figure che sul piano appoggiano, solida e sobria come il terreno sotto i piedi, aperta come il significato di una frase enunciata distintamente o scritta a pennarello nero in diligente corsivo su uno sfondo bianco.

Il giardino di mio padre. Gli oggetti sepolti (2019) è un lungo rettangolo di terra arida e compatta stesa sul pavimento, un campo apparentemente senza vita che evoca l’immagine di un ampio sentiero battuto, il risultato del tempo e dei passi che hanno trasformato la roccia in ghiaia e finalmente terriccio, un orto non coltivato. Il visitatore ne può contemplare la distesa seduto su uno sgabello in posizione laterale o attraversarla in silenzio, scalzo, accompagnato nel suo passeggio dai suoni di un ambiente naturale. Una lista di oggetti, redatta a mano in forma di inventario su un grande un foglio appeso a parete, fronteggia l’installazione a terra. Una matita, un bilancino di precisione, una cravatta blu, un martello, un cacciavite a stella e un cacciavite a taglio, una chiave a pappagallo, un binocolo da teatro, un tovagliolo di cotone, due mazzi di carte da gioco,  una custodia di cartone con fotografie, una lente d’ingrandimento, una pipa in radica, una torcia, un accendino, una forbice, un adattatore di corrente, un contenitore con compasso e altri strumenti di misurazione, un metro pieghevole di legno, un metro a nastro, una scatola di legno con tessere del domino, una tenaglia, una pinza , un seghetto, un esposimetro analogico, un raccoglitore di plastica con chiavi a brugola, un cutter, una custodia portaocchiali. Semplici cose il cui solo valore è la capacità di evocare il catalogo dei gesti di chi le ha usate e di veicolarne il ricordo. Ormai inutili e muti, gli strumenti che hanno smesso di misurare, gli attrezzi che non servono più, i passatempi che nessuno divertono sono sepolti nella modesta profondità di quel tappeto di terra,  trasformati in reperti archeologici di un passato la cui indagine stratigrafica qualifica come recentissimo.

Mentre l’artista svolge la sua performance dissotterrandone alcuni, inevitabilmente si prova a immaginare la persona al quale quegli oggetti sono appartenuti. Emerge il ritratto di uomo asciutto, per certi aspetti quasi marziale, forse solo apparentemente più incline alla certezza della geometria che alle forme indefinibili assunte dai sentimenti. È una figura taciturna di quelle che appartengono alla folta schiera degli uomini che col passare del tempo si fanno di poche parole, secchi come il rumore dei cassetti della scrivania dove ripongono tutti quei loro attrezzi, ridotti a strumenti di una comunicazione pratica e silenziosa, voci di un vocabolario muto. La figura del padre dell’artista a cui si fa riferimento nel titolo dell’opera assume allora i caratteri di quello stesso terreno battuto e compatto che, come tutti gli oggetti resistenti, porta il segno dell’ambivalenza, quello dell’aiuto e dell’ostacolo, un senso ben noto al maratoneta che spinge il piede a terra per procedere e vincere la fatica del percorso, ma anche a ogni figlio che guarda al genitore con fiducia e sfida.

In fisica, un campo è definito in funzione dell’azione dei vettori associati alle forze che agiscono nello spazio e le rappresentano in termini di intensità, direzione e posizione. Ogni azione performativa si svolge in uno spazio costituito dall’area designata per il manifestarsi dell’accadimento. Il piano, elemento ricorrente nell’opera di Cesare Viel, assume, assieme alla forza di gravità, un valore iconico rispetto alla concretezza di tale manifestazione e alla sua conseguente inevitabile dispersione che costituisce di per sé la specificità dell’atto performativo.

0

Avvicinandoti a distanza  fronteggia idealmente Il giardino di mio padre suggerendo la complementarità di un dittico. L’allestimento, basato sulla ricostruzione di una mostra presentata alla galleria Pinksummer di Genova nel 2008, evoca la presenza della madre dell’artista attraverso tre opere in origine distinte: un tappeto steso a terra, una frase sulla parete e una traccia audio che solo un singolo visitatore alla volta può ascoltare in cuffia. Anche in questo caso, l’installazione è caratterizzata dalla presenza di un campo che definisce lo spazio dell’apparizione e qui assume la morbidezza e il calore della superficie del tappeto steso a terra. Al piano limitato e misurabile del suo perimetro rettangolare, si sovrappone la designazione di un più ampio e indefinito piano metafisico suggerito dalla frase riprodotta sul muro (“ … percorrendo i margini dello spazio passo dopo passo un percorso laterale … “). Rispetto all’evidenza stratigrafica dell’opera dedicata al padre e al suo carattere prettamente maschile, sottolineato dalla griglia di oggetti in esso collocati, tale sovrapposizione esprime la fascinazione per una diversa complessità, meno misurabile e necessariamente declinata al femminile. In entrambi i casi, il piano definisce i termini della presenza nel momento in cui resiste al peso, pur leggerissimo, del passo. La superficie calpestabile supporta il corpo e, ponendosi in posizione antagonista rispetto all’azione, ne consente il compimento.

Il peso dei massi da scogliera impiegati per l’allestimento di Gertrude. The making of Americans (2012-2019) si calcola in tonnellate. La loro presenza in relazione al cognome della scrittrice (pietra in tedesco) e al volume delle pagine del libro chiuso in tutta la sua complessità, propone ulteriori riflessioni sulla stratificazione dei piani e la ricerca delle origini dell’identità. Una evidente fascinazione geologica avvicina questa installazione a Il giardino di mio padre e materialmente carica il concetto di piano di una connotazione terrestre profonda, nella quale il suolo assume i connotati femminili della terra, chiamata in causa direttamente in quanto testimonianza dello stratificarsi del tempo e materia originaria generante, grande madre, contrapposta alla semplicità strutturale della rappresentazione del patriarcato, ridotto a una mera superficie di terra secca. Alla fisica imposizione del peso della roccia, il piano non fa che rispondere con tutta la forza con cui il piede del pugile calca il ring per sferrare un gancio ben assestato. Il piano non è che il luogo geometrico dell’accadere.

1

Il piano, l’azione, la sovrapposizione, la stratificazione e il peso. Sfogliando le pagine solo leggermente ingiallite di Attaccapanni pubblicato nel 1978 nella collana Einaudi Letteratura, si trova una foto in bianco e nero che mostra un pavimento coperto da alcuni fogli di giornale. Il pavimento è tanto lucido da riflettere la luce proveniente da una porta finestra che resta fuori campo nella parte superiore dell’immagine. A proposito di questo suo Pavimento (1967) Luciano Fabro, autore dell’opera e del libro, sottolinea che il senso di quel lavoro è da cercare esclusivamente nel valore dell’azione, l’abitudine e la fatica del lucidare protetta sotto i giornali dalla donna di casa. È Cesare stesso a parlarmi di quest’opera dicendo quanto profondamente ne fosse stato colpito. Guardando le dense campiture di carboncino sulle pagine del quotidiano cancellato in Primo Levi (1987) o il mio riflesso nello Specchio a carbone (1987) mi sembra di riconoscerne le componenti fondamentali assimilate e riorganizzate in diverse combinazioni di superficie e azione.

Il pavimento su cui è stata allestita Infinita ricomposizione (2015-2019) è un piano di scorrimento concepito come base sulla quale vengono spostate e collocate delle sagome ritagliate in feltro colorato, tratte da una selezione di opere di Henri Matisse. In quanto tale, la sua superficie idealmente liscia esclude la resistenza delle forze d’attrito e risulta molto più vicina per consistenza tattile all’opera di Luciano Fabro sopra citata che alle superfici corrugate dei primi frottage a carboncino o a quelle delle due installazioni dedicate ai genitori. Costituita dalla somma delle diverse disposizioni dei feltri che si susseguono nel corso della durata della mostra, l’opera ha una natura dinamica e immateriale strettamente legata all’ azione performativa necessaria per il riposizionamento dei feltri. Rispetto ai lavori precedenti, l’introduzione del colore, l’uso dello spazio e la scelta del materiale conferisce a Infinita ricomposizione una gioiosa leggerezza di apertamente matissiana facilità che prevale su tutti gli impliciti e consapevoli richiami alla tradizione del contemporaneo da Robert Morris a Helio Oticica. Per quanto il lavoro possa apparentemente risultare solo una felice digressione nella ricerca dell’artista, il ruolo fondante della superficie come campo dell’azione, il peso dei feltri contenuto esattamente nella libertà degli spostamenti dei performer e nell’orizzontalità del loro silenzio sono da ricondursi ancora una volta agli esercizi di geometria dei piani e alla fenomenologia dei campi che si è cercato di analizzare brevemente negli esempi precedenti. Il piano ritorna qui in una sua ulteriore declinazione e assume i caratteri di una pista da ballo sulla quale il repertorio di figure e pause che si alternano in un tango esprime l’estro combinatorio dell’improvvisazione.

 Nel celebre saggio Note su poesia e filosofia (1989), Charles Simic spiega l’origine della sua lirica descrivendo “un tavolo sul quale disponiamo oggetti interessanti trovati durante una passeggiata: un ciottolo, un chiodo arrugginito, una radice dalla forma strana, l’angolo strappato di una fotografia”. Per quanto emblematica nell’esemplificare la scintilla che scatena il processo creativo, il senso della citazione in questo contesto non è tanto da cercarsi negli oggetti e nella loro disposizione, quanto piuttosto nel ruolo attivo, solo apparentemente marginale, giocato dal piano del tavolo in qualità di campo dove si instaurano dei sistemi di relazione. Come il tavolo, anche il pavimento, il suolo, il giaciglio e la tovaglia, la superficie orizzontale del tappeto e il foglio su cui si scrive forniscono un supporto, una base su cui costruire un sistema di relazioni. Rispetto alle opere di Cesare Viel, sono questi i campi che definiscono sobriamente la complessità della relazione tra superficie e accadimento, proiettando lo spazio empirico e gli oggetti che lo occupano in una dimensione metatemporale che prevede la coesistenza di stasi e libertà di movimento nella condizione dell’essere alla deriva.

All’interno del PAC di Milano, l’architettura di Ignazio Gardella regala un’inedita prospettiva a volo d’uccello sulle opere che aprono la rassegna. Il visitatore che, seguendo il percorso della mostra, si sposti lungo la balconata e si affacci a guardare dall’alto le sale al piano terra  ha infatti la sorpresa e il privilegio di un secondo sguardo su quanto visto poco prima. Lost in meditation, Infinita ricomposizione, Aladino catturato e Avvicinandoti a distanza si avvicendano così in una sorta di piano sequenza che dimostra la sorprendente efficacia dello spazio espositivo aperto e unitario disegnato da Gardella, ma soprattutto fa riconoscere nell’atto di mostrare le opere in rassegna un omologo superiore della disposizione degli oggetti sul tavolo menzionata dal poeta serbo: sul pavimento di legno del padiglione, gli oggetti sono le opere stesse. L’attenzione si sposta ancora una volta sulla sovrapposizione dei piani e sulle loro possibilità combinatore. Il pavimento, anch’esso dotato della semplicità dei concetti fondamentali che non hanno bisogno di troppe spiegazioni per essere capiti, offre una solida base per infinite ricomposizioni delle opere esposte nei possibili percorsi all’interno della mostra.

Il piano è un elemento tanto ovvio da non essere degno di nota, come l’acqua ai sensi dei pesci, come l’aria che è ovunque e pur non si vede. Umile come la terra sotto gli scarponi, il piano ricorre nell’opera di Cesare Viel come un basso continuo e assume diverse connotazioni a seconda degli accadimenti e delle forze che su di esso insistono. Sentiero battuto, pista da ballo, palestra, palco, il piano implica sempre una presenza umana rispetto alla quale è supporto e ostacolo.

Il tema della scomparsa che fa da filo conduttore della mostra trova espressione concreta nel tema universale della perdita dei genitori. Al di là della delicata poesia delle opere e ben lontano da ogni mera espressione autobiografica, la scelta del soggetto risulta emblematica riguardo all’indagine sull’identità condotta dall’artista precedentemente e al motivo della dispersione che definisce la specificità della performance. Rispetto alla centralità dei concetti di scomparsa e dispersione, il piano, attraverso l’esperienza della superficie, ci offre una tangibile manifestazione dell’assenza. Ogni superficie orizzontale definisce infatti il campo assoluto dell’azione dove l’attesa di un accadimento che non si è ancora verificato e la memoria di quanto è precedentemente accaduto coesistono in potenza. In quanto superficie, si può immaginare che un piano sia un verbo coniugato al presente assente.

Massimo Palazzi

Standard