Mike Nelson

Gesù Cristo si è appena manifestato in cielo sopra l’autostrada. Alla visione hanno assistito in pieno giorno centinaia di automobilisti e i loro compagni di viaggio, se presenti. Quando l’enorme figura di Cristo, crocifisso e incappucciato, in un lampo è apparso davanti a loro al di là parabrezza, stavano semplicemente parlando, ascoltando la radio o godendosi la monotona sicurezza della guida, sprofondati nell’abitacolo insonorizzato delle loro vetture. Ora, immediatamente dopo l’apparizione, c’è un silenzio terribile. La fila di auto ferme sull’asfalto è interminabile.

Uomini e donne si aggirano come comparse in quello che sembra il set di una serie TV. Sono vere le auto posteggiate con i fari accesi, gli oggetti collocati al loro interno, il suono delle autoradio compresso dai finestrini chiusi; reali i muri del capannone che le contiene mostrandosi in tutta l’affascinante monumentalità degli spazi del lavoro collettivo, reale anche il sistema di illuminazione e di aereazione con cui è stato equipaggiato per la sua nuova destinazione d’uso. Eppure, nell’intervento di Mike Nelson alle OGR (Officine Grandi Riparazioni) di Torino intitolato L’Atteso, tale e tanta realtà è funzione di un’ostentata, quasi didascalica, rappresentazione. La grande quantità di detriti su cui si cammina evoca il passato prossimo del luogo, il tempo prima del restauro e della riconversione in cui l’edificio era rovina industriale. Emblematica in tema di rappresentazione è la franca presenza di una costruzione in legno grezzo che divide lo spazio e identifica il luogo della messa in scena, segnalando una soglia attraverso la quale il visitatore accede all’opera, quasi fosse un attore che sale sul palco per recitare la sua parte. Una quinta, lo schermo opaco e muto di un drive-in verso il quale tutte le auto sono rivolte. Un grande cartellone pubblicitario, tanto finto quanto vuoto.

Non c’è modo di capire cosa sia successo, quale narrazione connetta i molti elementi appositamente preparati in maniera anche troppo palesemente intrigante per il visitatore, se non quello della raccolta degli indizi. Viene da pensare allo scenario del romanzo di John Ajvide Lindqvist, Musica dalla spiaggia del paradiso (2015) così introdotto nella quarta di copertina dell’edizione italiana:

Una mattina d’estate, un gruppo di ospiti di un campeggio non lontano da Stoccolma si risveglia in mezzo al nulla. Ogni cosa è stata cancellata, gli alberi, il lago, gli scogli e il chiosco, è tutto scomparso. Intorno ai villeggianti increduli – dieci persone, un cane e un gatto – c’è solo una landa desolata, ricoperta da un prato perfettamente rasato e sovrastata da un cielo blu e senza sole, così uniforme da apparire artificiale. Ogni contatto con la realtà è interrotto. Non rimane che il segnale di una misteriosa stazione radiofonica, che trasmette senza sosta le canzoni di Peter Himmelstrand, uno dei più noti cantautori svedesi di musica leggera. Musica pop a ripetizione, Abba in testa.[…]

Nelle pagine di Lindqvist sembra di ritrovare la stessa atmosfera sospesa dell’installazione di Nelson, un’analoga avvincente tecnica narrativa che intrappola il fruitore nel ruolo di chi cerca di venire a capo di un mistero destinato a restare comunque insoluto. Ci sono poi l’immaginario collettivo delle canzonette diffuse alla radio e la messa in scena di una comunità umana involontariamente assortita con tutta la sua paccottiglia.

Noi siamo spettatori e attori al tempo stesso. Qui ci aggiriamo circospetti tra le auto, intenti a curiosare dentro l’oscurità degli abitacoli illuminati dalle spie del cruscotto e ad altre luci accese alla ricerca del particolare rivelatore. Tra cartine stradali, abiti e telefoni cellulari abbandonati sui sedili si riconoscono strani giocattoli un po’ macabri e oggetti che rimandano apertamente a pratiche esoteriche e infatuazioni politiche del passato italiano recente. Uno zaino che reclamizza Forza Italia, piramidi energetiche in bronzo che si crede possano concentrare energie positive al loro interno, tarocchi.

Nel corso dell’allestimento della mostra In the rear view mirror (pinksummer, Genova, 2014) Bojan Šarčević mi disse che avrebbe voluto offrire al visitatore un’esperienza simile a quella provata da chi entra in una sala cinematografica quando la proiezione del film è in pieno svolgimento e improvvisamente si trova davanti a personaggi sconosciuti, impegnati nello sviluppo di una trama che ignora completamente. Il brivido di quest’estraneità rispetto all’evidenza delle relazioni che connettono elementi noti ma inesplicabili, credo fosse il suo obiettivo, la cui premessa necessaria è il tentativo di superamento della mostra come gioco di rappresentazione in nome della creazione di un ambiente reale praticabile indipendentemente dal linguaggio dell’arte. Spinto da questa tendenza, il progetto originario dell’artista prevedeva infatti una radicale riorganizzazione degli ambienti della galleria e della posizione del personale al loro interno.

Anche nel caso dell’installazione di Mike Nelson sembra di entrare sul set di un film in pieno svolgimento. La miscela di realtà e finzione di cui si è detto somministra al visitatore un sapiente dosaggio di coinvolgimento e straniamento brechtiano, inteso come Verfremdungseffeckt che invita lo spettatore all’identificazione, ma crea la giusta distanza per indurre un atteggiamento analitico rispetto all’evidenza fatti rappresentati.

Una volta entrati all’interno dell’opera, dopo aver raccolto le informazioni così chiaramente esposte non resta che cercare di rispondere alla domanda che il titolo inevitabilmente ci pone: chi è l’atteso?

La mia personale risposta parte dal breve racconto che apre questo testo. Si tratta del ricordo di un sogno che feci una ventina d’anni fa, inaspettatamente riaffiorato alla mia memoria mentre stavo visitando l’installazione di Mike Nelson. Nel sogno ricordo di aver provato un grande turbamento dovuto al reale e inequivocabile verificarsi di un evento assurdo, impossibile, inconcepibile nel mondo contemporaneo quale è la teofania. Il turbamento di allora coincide oggi con lo stupore che provo di fronte all’inaspettato ritorno delle fedi religiose oggetto dell’ultimo libro di Neil McGregor, Living With the Gods (2018) e la profonda delusione con cui assisto a quella che definirei la progressiva ascesa del fascismo in risposta all’indeterminazione e all’insicurezza generali dell’occidente, alle sue ormai apparentemente poco sostenibili libertà.

Gli oggetti collocati all’interno delle auto sono la testimonianza delle estreme preoccupazioni di chi si trovava a bordo, la maggior parte racconta della necessità di una guida per il viaggio, qualcosa in grado di indicare la via giusta a chi naufraga nell’incertezza delle possibilità, strizzando l’occhio alla fascinazione per l’occultismo cui è notoriamente legata la città di Torino. La struttura effimera che ricorda lo schermo verso il quale le auto sono rivolte materializza la presenza di una visione, un fine non meglio identificato, o forse è solo una parete posticcia, il termine di un binario tronco, la fine del viaggio. Date queste premesse, l’atteso non può essere altro che il messia, l’unto dalla folla, il duce, l’entità superiore a cui incredibilmente tutti tornano ancora a rivolgersi, colui che inevitabilmente, terminata l’infatuazione collettiva, vedrà le sue sorti capovolgersi. Perché l’atteso è destinato a trasformarsi nell’appeso, la figura rappresentata nella dodicesima carta degli arcani maggiori, il traditore sottoposto finalmente al supplizio pubblico. Ma cosa accadrà prima che il destino ancora una volta si compia?

Massimo Palazzi

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